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Luis Miguel Dominguín, il numero uno

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REAPARICIÓN DE LUIS MIGUEL DOMINGUÍN EN LAS VENTAS CON EL TRAJE DE LUCES DISEÑADO POR ÉL MISMO

(fonte immagine)

C’era anche lui in quell’afoso pomeriggio del 28 agosto del 1947 a Linares, un’arena andalusa di terza categoria conosciuta solo tra i più stretti aficionados, quando un toro di neanche 300 chilogrammi di nome Islero che aveva le corna limate, “era andato dal parrucchiere” si ironizzava un tempo, scaraventò in aria Manolete, in quel momento il torero più famoso e ammirato di Spagna, lasciando senza fiato e in lacrime un’intero Paese.

All’epoca Luis Miguel Dominguín, in seguito per tutti solo Luis Miguel, o “il torero”, come solennemente lo chiamava Lucia Bosè, aveva solo 20 anni, ma già un portamento regale, un’infinita capacità di seduzione, una conoscenza taurina fuori dal comune e quella speciale superbia, misto di arroganza, paura, inquietudine e follia, necessaria per affrontare quello che Hemingway avrebbe chiamato il momento della verità. Non poteva che essere lui il predestinato, l’erede in grado di sostituire ‘el monstruo’ nel cuore di un popolo in lutto e in cerca di riscatto.

Dominguín non è stato il più grande. L’età dell’oro della corrida raggiunse l’apice intorno al II decennio del XX secolo, quando le arene di Spagna erano tutto uno sventolio di fazzoletti bianchi per applaudire le gesta dei sivigliani Joselilo el Gallo e Juan Belmonte, i due principi della tauromachia spagnola. Ma è stato ‘el numero 1’, come lui stesso si premurò di far sapere al mondo il 18 maggio del 1949 a Las Ventas, la scala della corrida di Madrid, quando durante un’esibizione alla Feria de San Isidro si voltò di fronte le gradinate e alzò l’indice destro verso il cielo, autoproclamandosi il migliore di tutti. “Il numero 1. Questo è stato Domenguín, hasta la muerte“.

Vederlo toreare era un po’ come leggere un classico: si poteva comprendere la bellezza dell’arte”, ha scritto Andrés Amorós nella biografia che ha dedicato al torero di Madrid. Si racconta che negli anni Cinquanta, quelli di massima popolarità, quando lo si poteva incontrare all’hotel Claridge di Londra con Ava Gardner o nella finca cubana a casa di Hemingway, per fargli arrivare una lettera, meglio se scritta da una trepidante ammiratrice, non ci fosse neanche bisogno di scrivere il suo nome sulla busta. Bastava fare un segno, con il disegno del numero 1.

Bellissimo, furbo, cinico, arrogante e con una forte propensione all’insolenza, “uno che va nelle arene come Jean Gabin va agli studi cinematografici”, scrisse lo scrittore francese Jean Cau, Dominguín ha incarnato, in un paese uscito con le ossa rotte dalla Guerra Civile, tutto quello che i suoi concittadini non avrebbero mai potuto avere: belle donne, denaro e gloria. Non si poteva certo definire un progressista, ma era troppo intelligente per finire ingabbiato nelle grigie dinamiche di un regime che gli concesse più di un privilegio ma che in cambio utilizzò il suo stile di vita, teoricamente deprecabile in quella Spagna così puritana degli anni Cinquanta, per cercare di migliorare l’immagine di una dittatura chiusa nella propria solitudine. Fin troppo nota era la sua personale amicizia con il Generalissimo. Durante una delle numerose battute di caccia che i due si concedevano, Franco una volta gli chiese: “quale dei tuoi fratelli é comunista?”. “Eccellenza – rispose – Los tres”.

Fuori dalle arene di Spagna la sua fama di matador è in parte offuscata da quella di ambasciatore del prestigio spagnolo. Parla inglese, frequenta l’aristocrazia, veste elegantemente. Es un senor, amato e odiato, ma di fronte al quale nessuna señorita è in grado di opporre una qualche forma di resistenza. La lista delle sue conquiste, da Romy Schneider a Lauren Bacall, da Brigitte Bardot a Lana Turner, era di gran lunga maggiore delle cicatrici che modellavano il suo corpo. Ma di grandi amori passati alla storia se ne ricordano principalmente due. Il primo con Ava Gardner, la “maya desnuda”, la musa di Hollywood che il fotografo taurino Paco Cano definì “con permesso della Vergine Maria, la donna più bella che abbia mai incontrato”.

Si incontrarono a Madrid nel 1953, quando lei stava girando “La contessa scalza” e si era presa una pausa, una delle tante, dalla burrascosa storia con Frank Sinatra. Più amanti che compagni, insieme resistettero un anno. Un famoso aneddoto, mai confermato dal protagonista, riguarda la loro prima notte d’amore. Lui si riveste e fa per andarsene e quando Ava le chiede dove diavolo stia andando, Dominguín risponde serafico: “a raccontarlo agli amici”.

Il secondo quello con Lucia Bosè, che nell’entourage del torero tutti conoscevano come l’italiana. “Era di una bellezza da togliere il fiato”, ha ripetuto frequentemente l’attrice, che aveva già lavorato con Antonioni e Soldati e che conobbe Luis Miguel all’età di 25 anni, ad un ricevimento d’ambasciata appena arrivata a Madrid. Al primo incontro si detestarono, al secondo finirono a letto per 3 giorni di fila. Due mesi dopo si ritrovarono davanti all’altare, con un testimone d’eccezione: il comunista Luchino Visconti. Quasi un affronto alla dittatura.

“Io non parlavo spagnolo, lui non parlava italiano, credo che così sia nata la passione, perché non ci intendevamo. Quando cominciammo a comprenderci cominciò la crisi”, ha raccontato in seguito Lucia Bosè, sintetizzando oltre un decennio di vita insieme, tra continue infedeltà, battute di caccia, sontuosi ricevimenti, sacrifici familiari e molta solitudine. Si dice che tra di loro non abbiano mai parlato di tori. Però ogni volta che lui indossava il traje de luces e si accingeva a entrare nell’arena lei si sedeva sul divano, accanto al telefono, in attesa di uno squillo che allentasse la tensione.

Quando non si trattava di donne, poi, c’era di mezzo l’arte, una delle 3 cose insieme all’amicizia e ai tori che “giustificano un’esistenza”. Lo racconta lo stesso Dominguín in un prezioso libretto, “Per Pablo”, originariamente pubblicato come prologo dell’album Toros y toreros di Picasso. Eppure, scrive Jacques Durand nella prefazione, “la relazione affettiva tra i due ci metterà del tempo a trovare la sua distanza, come in quelle faenas che cominciano nel sospetto, con passi di prova, di valutazione, persino di sofferenza”.

Picasso, che amava la lotta ostentata, il corpo a corpo, prima di conoscerlo raccontava che Dominguín era un torero da “Place Vendome”, non proprio un complimento; Luis Miguel invece si è sempre rifiutato di dedicargli l’uccisione di un toro ogni volta che andava a combattere in Francia, ad Arles, dove si conobbero nel ’50, grazie a Jean Cocteau. “Ho l’impressione che se io combattessi per lui e lui dipingesse per me, verrebbe meno la nostra relazione professionale”. Ci furono anche incomprensioni, come quella volta che Dominguín, ancora molto giovane, si dimenticò di andare in Provenza, dove Picasso lo aveva invitato per fargli un ritratto. “Quando io prometto a qualcuno di ritrarlo, di solito arriva immediatamente”, borbottò l’artista. “Pablo, cerca di comprendermi – fu la risposta – io voglio che tu ti occupi di me quando mi conoscerai bene. Non prima”. Fu una bella storia di amicizia, molto novecentesca, tra 2 persone che apparentemente non avrebbero potuto essere più diverse. Entrambi però condividevano il vecchio adagio di Hemingway, riportato in Fiesta: “non c’è  nessuno che viva la propria vita fino in fondo, a parte i toreri”.

Nato a Roma (1972), laureato in sociologia, giornalista. Ha lavorato alla’Ansa, la Cbs, Il Messaggero. Scrive per diversi quotidiani e settimanali. Autore di Blues Highway. Da Chicago a New Orleans. Viaggio alle origini della musica americana (Arcana 2015)

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